La scuola come inclusione. Diritto .Sperimentazione che non può essere sostituita dal DAD ne oscura le fondamenta.Commenta l’arch. Laura Cacciapuoti

Quando, tre mesi fa, le scuole erano ancora aperte, mia figlio era un bambino che amava scrivere, studiare, imparare, vivere cinque ore al giorno con i suoi compagni e le sue insegnanti.
Poi l’emergenza da Covid-19 ci ha costretti in casa e siamo passate a un onesto “Mi sbrigo a fare i compiti, così posso andare a giocare”.
Ora, dopo quasi tre mesi di didattica a distanza, devo combattere ogni santo giorno con tutto il mio impegno di genitore contro svogliatezza e demotivazione:
“Uff, mamma. Lo so che devo farli, ma mi annoio tantissimo”.
Per molti dei nostri figli, a questo punto di un anno che se non definisco perso è solo per un residuo di folle ottimismo, la scuola è diventata qualcosa di vago e indefinito, privo di attrattiva. Un dovere noioso e insensato, anche se noi genitori assicuriamo loro che no, la scuola è importante, è preziosa, che settembre è dietro l’angolo e bisogna farsi trovare pronti. Ma “pronti” a cosa, di preciso?
Che la didattica a distanza non sia scuola, né una soluzione vincente (checché ne dica la nostra ministra dell’Istruzione) insegnanti e famiglie lo hanno capito da un pezzo.
La famigerata DAD non è scuola perché la scuola è socialità, sfida, emozione, è lasciare la propria comfort zone per misurarsi con i coetanei, dividere la merenda e scambiarsi le matite, fare amicizia tra i banchi, sbagliare, sbagliare di nuovo, imparare.
La scuola è sperimentarsi come persone in un contesto accogliente e stimolante. La scuola è inclusione, valorizzazione delle diversità.
La scuola è un diritto, non dimentichiamolo mai.
Sono tre mesi che noi genitori gestiamo la didattica a distanza nel silenzio totale del Governo e del suo ministro.
E cosa succede quando chiediamo una riapertura delle scuole a settembre organizzata, sicura, sostenibile?
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Sogno di salutare i miei figli alle sette e cinquanta di mattina davanti alla scuola.
Sogno di tornare a prenderli cinque ore dopo, chiedere loro “Cosa hai fatto?” e sentirmi rispondere il solito “Niente”.
Perché in quel “Niente”, in realtà, c’è tutto.
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